domenica 19 luglio 2015


 
 
 
 

«Nel caos dei differenti livelli di conoscenza auspico l'ardire di essere sogno in una realtà di cristallo pronta a frantumarsi in frattali di luce che attendono soltanto un algoritmo di pace.» Loretta Stefoni


venerdì 17 luglio 2015

«L’arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro.» Kandinskij





LE DONNE DI SHAMSIA
 
Cancellate allo sguardo altrui,
ammantate dal destino
nel giogo dell'azzurro,
le donne di Shamsia
s'allungano su scalcinati muri
a conquistare spazio.
Invadono la periferia
di una città che l'ignora
tra pareti di fango
che non reggono più nulla.
Sagome loquaci agli occhi
di un luogo dove il silenzio
trova la sua voce soltanto
nella forza del colore.

Tutti i diritti riservati © Loretta Stefoni 

Questo testo è protetto contro il plagio.
Questo testo è depositato ed esiste una prova certa della sua data di deposito.
 
 

Classe 1988, Shamsia Hassani, vanta il primato di essere la prima donna graffitista in una realtà complessa e chiusa come quella afghana e, per questo, di essere diventata, oggi, vera e propria portavoce dei diritti delle donne.
Nata in Iran, da rifugiati afgani originari del Kandahar,  Shamsia è impossibilitata a iniziare i suoi studi artistici a causa della nazionalità afghana. Rientra, allora, a Kabul, dove si iscrive, nel 2006, alla facoltà di Arte. In questo periodo, inizia anche a dedicarsi all’arte contemporanea. Nel 2009, viene selezionata come uno dei migliori dieci artisti del paese. Il gruppo si unirà in un’associazione, Rohsd (che in arabo significa crescita), che si dedicherà all’arte contemporanea.
Shamsia ha un nome bellissimo, che significa “sole”, e sole sia allora, perché intensi raggi di luce e di speranza giungono dalle sue opere.

Questa giovane artista ha iniziato a dipingere su tela, ma, nel 2010, ha scoperto il potere comunicativo della Street Art, durante un workshop tenuto a Kabul da un graffitista inglese, Wayne “Chu” Edwards (classe 1971, uno dei più noti graffiti artist in 3D, attivo dagli anni ’80 e nato come sviluppatore di giochi per computer come Aladino per la Game Boy). Quell’esperienza fu per Shamsia una seducente rivelazione. E così, iniziò a realizzare graffiti per arrivare al cuore (e alla mente) delle persone. Come ha detto in alcune interviste, attraverso i graffiti, vuole parlare al popolo mediante immagini, portare l’arte nei luoghi del degrado, sulle pareti di edifici danneggiati dalla guerra e dai bombardamenti. E lasciare che mura abbandonate e sporche accolgano la rigenerante vitalità della pittura.

I colori sono in grado di coprire i cattivi ricordi della guerra, di rimuoverli dalle menti delle persone.  Secondo Shamsia inoltre, il popolo afghano – e in particolar modo quello residente a Kabul – non ha una grande cultura artistica e non è avvezzo a visitare mostre (spesso non ne ha nemmeno la reale possibilità), dunque il messaggio insito in un’opera esposta in galleria rischia di andar perso o di restare confinato a stesso, mentre un dipinto murale è qualcosa che non si può evitare di vedere, se gli si passa accanto. Arriva prima della scelta stessa di vederlo, diretto e senza chiedere. E tale immediatezza visiva era, ed è, proprio ciò che Shamsia cercava, perché le immagini sono più forti e immediate delle parole.

Nella periferia di Kabul, Shamsia ha realizzato numerosi graffiti, al fine di coprire le brutture della guerra e, allo stesso tempo, di portarle a memoria, e ha invaso la sua città di burqa color cielo, simbolo di libertà, tonalità che più la mette a suo agio. Sui muri di Kabul giganteggiano, allora, sagome in burqa dai color vividi, fatte con spray e spesso con colori acrilici e pennelli, in assenza di bombolette di buona qualità, che sul mercato locale si trovano a fatica. L’artista progetta l’immagine da realizzare e poi, velo in testa e mascherina sulla bocca, inizia a lavorare. Rischia ogni giorno molestie o aggressioni; spesso, mentre lavora, le vengono gettati dei sassi. Allora si ferma, rientra a casa e rielabora al pc, in Photoshop, ogni dettaglio dell’intervento urbano momentaneamente interrotto dall’ignoranza.

Di solito dipingo donne con il burqa ma in una versione più moderna. Voglio raccontare le loro storie e trovare un modo per salvarle dal buio, (…) aprire le loro menti, per apportare qualche cambiamento positivo”.

Le sue figure sono imponenti, austere, arrivano fino alle nuvole e sono disegnate con una linea di contorno che curva sulla testa e si fa spigolosa in prossimità delle spalle; immagini quasi titaniche nel loro sforzo di presentarsi, dominare, farsi riconoscere e accettare. E di urlare. Accanto ai loro corpi si stagliano belle linee curve e arricciolate – quasi bolle o onde del mare (ancora l’azzurro) – che accentuano il valore simbolico del lavoro di Shamsia. Quei riccioli e quelle bolle sono l’emblema di parole non dette, ingoiate, taciute, che le donne afghane non hanno mai avuto il diritto di pronunciare. Donne che, in quel paese, sono ancora proprietà degli uomini, che servono principalmente a tenere in ordine la casa, a procreare, a obbedire e tacere. La corazza del burqa è imposta ma, ovviamente, la questione non è solo questa. Si tratta di combattere una mentalità di pietra, per la sua pesantezza ma anche per la sua inaccettabile e incredibile arretratezza.

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Uno dei suoi graffiti più noti a Kabul ritrae una donna in burqa seduta sui reali gradini di un’abitazione diroccata. Secondo Shamsia è la rappresentazione dell’incertezza femminile odierna e vive, quindi, l’eterna esitazione nella totale restrizione: non sa se si riuscirà a “salire” recuperando una posizione più dignitosa all’interno della società, o se subirà un più disastroso crollo. Ma, intanto, aspetta, fiduciosa, seduta sulla sua domanda.
Fiduciosa come Shamsia, che ora è docente di scultura presso la Facoltà di Belle Arti di Kabul e continua a serbare in cuore sogni e tenacia. Oggi espone in India, Iran, Germania, Italia e nelle ambasciate estere di Kabul, ma il suo più grande desiderio è quello di fondare una scuola per graffitisti per diffondere il “verbo” visivo per le strade della sua città e, un giorno, di collaborare con Banksy.

Per parlare, gridare, protestare, lottare per il bene, per la libertà, per il rispetto, cambiare le cose: perché in fondo l’arte è sempre stata questo: comunicazione e rivolta. E a volere questa rivoluzione è proprio una donna: Shamsia Hassani. (Articolo di Simonetta Sandri)

Girovagando nel web...


Forse non tutti sanno dell'esistenza di poeti che hanno lasciato opere più o meno apprezzabili pur non essendo mai esistiti. Sì, perché c'è la possibilità che un componimento in versi nasca da un autore inesistente che acquista una sua identità grazie ad una biografia reale che qualcuno si è divertito a stilare con dovizia di particolari oppure con pochi vaghi cenni.

L'inglese Randolph Henry Ash (? - 1889) è uno dei poeti inesistenti più noti e prolifici nato dalla penna di Antonia S. Byatt in Possessione. Il romanzo contiene, inseriti nella narrazione, numerosi testi (lettere, poesie e diari) di cui sono autori i personaggi principali, e in particolare è arricchito dalla poesia attribuita ai due poeti vittoriani immaginari, Randolph Henry Ash e Christabel LaMotte.


 
 
La Cascata

"Si dice che la donna sia mutevole: è così: ma tu
sei sempre tu nella tua mutevolezza,
come quel rivolo immutabile d'acqua che cade, sempre uno
dalla sorgente all'abbraccio nella polla immutabile
sempre rinnovato e sempre in moto
dal principio alla fine miriade di gocce d'acqua
e tu - per questo io ti amo - sei la cascata
che pur muovendosi custodisce la forma".

R.H. Ash