Il 23 aprile è stata la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto D'Autore, oggi voglio puntare i riflettori sulla simpatica iniziativa culturale che ha preso il via proprio ieri...
Dalla recensione di Umberto Vicaretti,
Roma, 27 febbraio 2011
«[...]
Ho
letto con coinvolgimento e partecipazione la tua Leucade,
dove nella prima parte, “Stagioni”,
proponi una sorta di conto consuntivo, un inventario della memoria,
un viaggio nel passato, rivissuto con la nostalgia delle cose buone
della vita, di quando le “note
stonate”
degli zufoli “depredati
a canne di golena
/…/ andavano
nell’aria
/ come
spiriti liberi dal gioco
/ rischioso
della vita”
(Zufoli
e fili d’erba).
Era il tempo in cui “rifulgevano
i sogni”,
l’età in cui “raggi
tardi e restii si staccarono / dal sole e differirono la notte”
(Vaghezza).
È, questo, un’emozionante rievocazione dell’ “età
più bella”,
senza però la leopardiana “lamentatio” per una Natura matrigna e
spergiura, ma con la responsabile accettazione della vita e
dell’avvicendarsi delle stagioni; non solo, e non tanto, di quelle
climatiche e fisiche, quanto piuttosto di quelle che caratterizzano e
segnano l’umana avventura. Si tratta di una consapevolezza
allertata già da quando “dissestavamo
i colli con rapine / di gemme incastonate sui declivi”,
quei declivi che restano i luoghi indimenticati della memoria e in
cui, “tra
gli stecchi, /…/ si staglia l’ombra del nibbio”, che “scatta
repentino / e fulmineo sul merlo disattento / in cuore al leccio”.
Disarmonia fatale, questa, che incrina le certezze del sogno, per
cui, smarriti, “si
parlò di morte nell’ebbrezza / tenera di dolcezze tra i filari”
(Che
pensare).
Eppure si doveva andare, per intraprendere quel “viaggio
/ che sempre ti promisi /…/ Era il viaggio di un’intera vita”
(Vaghezza).
La vita, dunque, come perenne viaggio. Il viaggio come partenza,
fuga, ritorno, desiderio, ripartenza, approdo; ma anche il viaggio
come insopprimibile impulso ad oltrepassare l’esperienza sensibile
per proiettarsi in un altrove onirico e catartico, per dimenticare il
quotidiano ed esorcizzare la morte: “… Volare
/ sopra la terra bigia, oltre la notte, / … / avanti che l’oscuro
senza stelle / continuasse nero il suo silenzio”
(Vaghezza).
Ed è sempre il viaggio a legare, come un filo rosso, anche le altre
parti del libro: La
sera di Ulisse. Poemetti serali;
Fuga
da settembre;
Sulle
rive del Biondo e dello Xanto-Canti arcaici.
Esse declinano le diverse fasi del viaggio, certificandone la valenza
e il senso, individuando in Ulisse l’universale metafora della
conoscenza e della sfida, il suo sempiterno partire, ma anche il suo
sempiterno ritornare e, ancora, l’inesausto ripartire. Nell’opera
sono molteplici i rimandi ai grandi spiriti della letteratura, così
come i contesti e gli stilemi, che spesso, tra gli altri,
riecheggiano, insieme a Leopardi, Foscolo, Pascoli, i grandi del
Novecento, Montale e Quasimodo, ma anche D’Annunzio e Ungaretti, e
Luzi (oltre che, beninteso, Dante e Virgilio, nonché gli amatissimi
classici latini e greci). Fuga
da settembre ci
introduce dunque in un viaggio “da”, ma non si sa per “dove”.
Certo, sarebbe meglio vivere nell’incoscienza degli uccelli (ed
evocato, in Da
un ramo dell’acacia,
è chiaramente il “passero
solitario”):
“Tu
non sogni! / Neppure sai riflettere: la vita / è morte differita
giorno in giorno”;
così come sarebbe certamente meglio vivere nell’innocente
inconsapevolezza dei bambini, i quali “non
pensano di certo né alla vita / futura, né agli affanni che
verranno / nemmeno alla sorte”
(Non
pensano di certo).
Ma diversa è la dimensione di chi avverte il tempo che chiama: “È
qui con noi settembre. Chiude l’occhio / da prono girasole ad
occidente / …/ Il tempo non ha tempo; si è fermata / per eterno la
sfida dello scoglio / munito dello scudo contro il vento /…// Di
certo sperderà questo settembre / i nostri corpi in seno alle
conchiglie”
(È
qui con noi settembre).
Ed è proprio la percezione della precarietà e dell’umana
fragilità che spinge a ricercare non solo il senso e la direzione
del vivere, ma spinge anche ad una sorta di redde rationem, ad un
consuntivo della vita: “È
questa l’ora / in cui tiriamo somme e meditiamo”
(Come
le foglie logore a settembre).
E questa percezione si fa più urgente e acuta nel settembre dei
nostri giorni: “Avvenne
proprio là. Nel punto in cui / scorre il diletto fiume, (…) / …
/ quasi al termine del suo fluire”
(Nel
regno delle Eumenidi).
È qui, nel settembre dei nostri giorni, che la percezione dell’umana
fragilità si fa più acuta, e più urgente diventa l’esigenza di
un consuntivo, con l’accettazione di un giudizio e con il
consequenziale “affido” alle Erinni/Eumenidi, metafora
immaginifica e visionaria di un dare e di un avere di esclusiva
valenza etica e laica: “Ma
non so se vale / di più restare immoti nella stasi / di un eterno
sereno che provare / il dolce senso del dolore umano”
(Fuga
da settembre).
Dunque, il dado è tratto; Ulisse si appresta di nuovo a partire,
perché “È
sempre aperta / la sfida tra l’eterno e me che cerco / con gli
occhi indolenziti quella luce / che mi soverchia”.
Proprio per questo irresistibile richiamo, “Ancora
salperemo / oltre colonne (…) / d’impedimento ai sogni”
(Il
ritorno di Ulisse),
questa volta per oltrepassare le colonne del mistero e
dell’inconoscibile. Ma per compiere il salto “nell’oscuro
senza stelle”,
fortissimo è il richiamo dell’isola del sogno, indimenticato luogo
della nostalgia e della memoria: Leucade.
Lì sarebbe dolce ritornare per tentare l’estremo volo. Una
diversione felice, una sorta di “scalo tecnico” propiziato da una
sorte benigna nella terra della bellezza, alle sorgenti del canto,
pura epifania della parola. Lì, con Alcmane e Saffo, e Anacreonte e
Alceo e gli altri sarebbe bello chiudere il ciclo e dare un
senso alla “fuga
da settembre”.
Alla
volta di Leucade,
dunque, dove il sogno è “nell’attimo
superbo / di eternare la gioia dell’amore”, e
dove “Nessuno
pronuncerà di certo il verbo furono / per i miei versi”,
perché “Moriranno
gli eroi, le bellezze / di cortigiane effimere e procaci, / ma un
cantico se eccelso volerà / oltre gli spazi frali degli umani”
(Da
Saffo a Anacreonte).
Fuggire da settembre, dunque, per
intraprendere il viaggio alla volta dell’isola del desiderio, e lì
compiere l’estremo atto: “Io ti lasciai e un salto nelle
oniriche / acque di Leucade non mi concesse / morte né oblio”
(Fuga da settembre). Un salto rigeneratore che, invece che
certificare uno iato incolmabile tra la realtà e il sogno,
prodigiosamente ristabilisce un continuum tra l’ombra e la luce (“E
ti rivissi, vita”), dà scacco al silenzio e all’oblio,
annuncia una nuova rinascenza.
Sul
piano stilistico, notevoli risultano la ricchezza sontuosa del
lessico, la padronanza della metrica, il ricorso privilegiato e
dominante all’endecasillabo; quest’ultimo come, starei per dire,
scelta di campo, rifiuto di ogni avanguardismo, moda,
sperimentalismo, avventurismo. Un endecasillabo luminoso e
fonicamente accattivante, armonioso e ampio, sostenuto da una
naturale e mai artificiosa declinazione delle varie figure retoriche.
La nobiltà di un linguaggio alto e aulico finisce per dare alla
raccolta, paradossalmente, un crisma di rivoluzionaria modernità, se
vi sappiamo individuare e “leggere” originalità e invenzione,
purezza visionaria e inesausta forza creativa.»